Riflessioni

Francesco Biamonti: un grande narratore della Liguria da riscoprire

gennaio 2021

di Claudio A. Giberti

Ho “ritrovato” un anno fa, essendomi capitato fra le mani il suo primo romanzo, uno degli scrittori che mi hanno avvicinato, giovane medico, alla poesia: Francesco Biamonti. Imperiese di San Biagio della Cima, paese dove si produce il miglior rossese, classe 1928 morirà prematuramente nel 2001. Uomo pacato, colto, sensibile, era radicato nella sua terra che conosceva profondamente.
Dopo Boine, M. Novaro, Sbarbaro, Montale e Calvino, assieme a Nico Orengo e Giuseppe Conte, è l’ultimo grande “geografo” che ha saputo regalarci un’immagine scritta e personale del paesaggio ligure.
Quest’anno ricorre il ventesimo anniversario dalla sua scomparsa e c’ è da sperare che non passi sommessamente come è successo l’anno appena trascorso per quello dei 70 anni di Cesare Pavese.
Approda alla letteratura in età adulta, per “lento accumulo”. Presentato a Giulio Einaudi da Nico Orengo, sostenuto da un altro grande ligure, Italo Calvino, “contento di trovare una personalità nuova ed inattesa”, che scrive anche la presentazione del suo primo romanzo L’angelo di Avrigue (AA) stampato nel 1983. Lo seguiranno  Vento largo (VL) nel ’91; Attesa sul mare (AM) nel ’94; Le parole e la notte (PN) nel ’98. Tutti editi dalla Einaudi. Nel 2003 esce sempre per i tipi della Einaudi Il silenzio, romanzo postumo, incompleto.
Tutta l’opera narrativa di Biamonti è caratterizzata da una forte personalità ed uniformità stilistica che le conferisce chiara riconoscibilità. La sua prosa è scarna, scabra, essenziale, con una rapidità di narrazione ed una struttura lirica che lo avvicinano al Pavese di “La luna e i falò”. Tale ricerca di essenzialità procede nel solco della poesia simbolista e surrealista francese in particolar modo di Paul Valéry e René Char e della cosiddetta LINEA LIGURE di Sbarbaro e Montale “Avrei voluto sentirmi/ scabro ed essenziale/ siccome i ciotoli che tu volvi,/ mangiati dalla salsedine.”
L’innata ed atavica ligusticità del personaggio quale motivazione della sua prosa asciutta, “in levare”, è però di solito trascurata. Biamonti stesso dice “I liguri parlano per accenni”, “troppe parole nascondono le cose”. Il savonese Mario Scaglia “gente drua, silensiosa e dua”. L’albisolese Angelo Barile “Secondo l’ora e l’età, la gente fa gruppo e conversa, ma non sono propriamente dialoghi: sono fili di parole, cenni esclamativi, segni convenzionali, apparenti contrapposizioni e contrasti sotto i quali vivono le segrete intelligenze, le sostanziali cristiane armonie».
Biamonti sa che la Liguria può essere raccontata solo in silenzio “La Liguria è bella quando è silenziosa”. In lui il rapporto tra parola e silenzio è centrale. Ha ben chiara in mente la distinzione che fa Maurice Merleau-Ponty tra “mot” e “parole”, chiacchiera e parola. La parola attinge all’essere, la chiacchiera è solo un riempitivo. Il tacere “è un’altra possibilità esistenziale del discorso”.
Sintatticamente il suo è uno “stile nominale” cioè conciso, graffiante, con l’uso di poche forme verbali per privilegiare invece quella di sostantivi ed aggettivi. È uno stile verticale, come l’Iceberg di Hemingway, i 7/10 della sua mole sono sommersi, sincopato, “che non indulge nella descrizione, taglia le frasi e agisce sul vuoto, sul non detto”. La verticalità della sua prosa è in sintonia con il paesaggio. “Il segreto di questi luoghi è la verticalità. “Lo sguardo di uno che vive in Liguria s’imbatte immediatamente nelle terrazze, nelle rocce” diceva in un’intervista del 1998 ricollegandosi alle espressioni pianura liquida e mondo verticale di Fernand Braudel che vedeva nella costa ligure uno dei modelli più compiuti di “riviera mediterranea”.
Il paesaggio è indiscusso protagonista dei suoi romanzi. Ha valore di personaggio ed una funzione manifestamente romanzesca “pour moi, rien ne peut être conçu sans lien avec le paysage”. Prima di lui, già Camus, i poeti liguri e provenzali avevano dato un’anima al paesaggio mediterraneo. Intervistato dice: “Il confine tra Italia e Francia coinvolge tutto il Mediterraneo. Ci sono tre grandi personaggi nel Mediterraneo: Il Golfo di Genova (Montale), Il Golfo di Marsiglia (Valéry) e il golfo di Orano (Camus) che hanno creato una civiltà letteraria legata alle cose, in cui le cose parlano al posto dell’uomo. I loro paesi diventano aspri ed emblematici di una civiltà umana legata ad una sorta di corrosione dell’esistenza, quella che provoca il salino. E’ una civiltà data dalla luce e dal sapere, dalla lucidità e dalla corrosione”.
La Liguria di Biamonti è quella dell’estremo ponente che si prolunga fino a Cap Ferrat, l’Esterel, la Baie des Anges. Il confine legale, non è quello reale, soprattutto sul versante letterario, per l’affinità che lega le popolazioni liguri a quelle provenzali.  “…Anche di là è Liguria, scriveva Pastonchi nel ’47, e le vecchie strade dentro paese, quelle non imbellettate alla riva per forestieri, somigliano alle tue; e la gente vi parla un comune dialetto. Ma ogni altro v’è travestito sotto vernici galanti…».
Tutto il paesaggio ligure, con i suoi undicimila chilometri di maxei, muri a secco, fasce che reggono uliveti, vigne, orti è però il frutto dell’interazione tra fattori umani e naturali.  Per Carlo Bo “C’è nel paesaggio ligure un aperto invito a non dimenticare mai l’opera dell’uomo, a non abdicare allo spirito di sacrificio e di fatica”.
Ed ancor prima la coinvolgente “Cattedrale degli ulivi” di Giovanni Boine “Ed ecco le fatiche fatte sante, ed ecco ... Le fatiche! Lavoro tenace, lavoro rude, lavoro anche di notte. E qui non v'è aratro, qui non v'è ordigno, qui i solchi si fanno a colpi violenti di bidente, uno dopo l'altro, duri, violenti rompendo il terreno compatto e argilloso. Terreno avaro, terreno insufficiente su roccia a strapiombo, terreno che franerebbe a valle e che l'uomo tien su con grand'opera di muraglie e terrazze. Terrazze e muraglie fin su dove non cominci il bosco, milioni di metri quadri di muro a secco che chissà da quando, chissà per quanto i nostri padri, pietra per pietra, hanno con le loro mani costruito. Pietra su pietra, con le loro mani, le mani dei nostri padri per secoli e secoli, fin su alla montagna!
Non ci han lasciati palazzi i nostri padri, non han pensato alle chiese, non ci han lasciata la gloria delle architetture composte: hanno tenacemente, hanno faticosamente, hanno religiosamente costruito dei muri, dei muri a secco come templi ciclopici, dei muri ferrigni a migliaia, dal mare fin in su alla montagna!  Muri e terrazze e sulle terrazze gli olivi contorti a testimoniar che han vissuto, che hanno voluto, che erano opulenti di volontà e di forza”.
Poi il levantino Vittorio G. Rossi: “Ma la Liguria l’ha fatta l’uomo; Dio ha fornito la materia prima; era una materia prima piuttosto economica, cioè pietra ed acqua di mare; e ce n’è in abbondanza anche in molti altri posti della terra.
Ma noi non ci siamo mai chiamati terre depresse; non ci sono terre depresse è l’uomo che è depresso. Infatti in altri posti la pietra è rimasta pietra; da noi la pietra è diventata oliveto e giardino, e gioia nel cuore che guarda; e ora la gente viene a vedere; ma non sa quanta fame d’uomo, quanta fatica d’uomo è passata su questa pietra
”.
Biamonti, scevro da ogni fierezza e vanto, con pessimismo esistenziale scrive in AA:” Erano stati tenaci lavoratori. Avevano costruito ripiani, scavato e ulivato. Da zero fino a seicento metri sul mare. La fatica tradotta in opere e la pena blandita dalla “buona morte”. San Sebastiano e Nostra Signora dei Dolori. Feticci inventati per consolare ed uniti all’idea di questa fatica, da sola, insostenibile. E morte sparsa come una promessa sulla sofferenza ineluttabile”.  La Liguria che lui ama è il frutto di questa sofferenza esistenziale, del lavoro di quella che Ada Negri definiva “Gente ligure, dura d’ossa, scabra di scorza e che non teme nulla”. E’ la civiltà dell’ulivo e del mare che sta morendo ma vorrebbe si salvasse. “Terra in rovina, mare pure”.
Tuttavia c’è in lui un cauto ottimismo “Una natura simile, frutto di millenni geologici e secoli di lavoro, è difficile distruggerla completamente, anche se i nuovi costruttori e speculatori ci si sono messi d’impegno. Selve di cemento, intervallate da serre, fanno male agli occhi. Gli ulivi abbattuti gridano vendetta”.
Dal 1956 al 2001 la superficie urbanizzata è aumentata del 500%. “Quel mondo che raccoglieva i suoi affetti se ne andava. Non tutto, gran parte. Restavano dei solchi, delle trame a suggerire la sua scomparsa”. Ma attorno ai suoi paesi, spesso celati da toponimi fantastici, alcuni abbandonati, resiste ancora l’animo della Liguria, άνεμος, vento, alito di vita. “Speriamo che la civiltà dell’ulivo torni… La gente delle terrazze comincia a crederci. Si vede di nuovo qualche ulivo potato a regola d’arte”.
Biamonti si identifica col paesaggio. In una visione metafisica, dipinge con le parole la Liguria, l’essenza della sua Liguria usando una tavolozza di colori che ci consente di vederla. Il Romanzo-paesaggio diviene Romanzo-poesia. La sua scrittura partecipa della poesia e della pittura. “I pittori sono come i fari che illuminano il buio della notte, i fari baudelairiani. Ognuno ha i suoi fari che però cambiano di continuo”. Per Biamonti i fari sono Cézanne ma, soprattutto il suo amico Ennio Morlotti, conosciuto a Bordighera alla fine degli anni ’50. La figura del pittore compare in AA e PN. Il Morlotti della Liguria, di San Biagio, della Valletta Verbone, dove lavora parecchi anni, che dipinge paesaggi, ulivi, rocce e cactus alla ricerca di luce e essenzialità. Gli ulivi ed il paesaggio sono gli stessi di Biamonti. I colori sono gli stessi. “Gli ulivi, carichi di seccume, anziché di folto argento, s’illuminavano di un viola scarno che precedeva il buio della fine”. “Il mare, di là dagli ulivi, e le rocce di cresta segnavano il cielo di una luce che si ossificava”.
L’ulivo acquisisce sacralità, mitizzato come un dio greco, dominus salvifico della Liguria. “Era lampescuro, l’ora in cui l’uliveto, sulle terrazze che si spegnevano, si sollevava fra le stelle e cambiava di fulgore: da vitale e familiare a cosmico ed estraneo”. L’ulivo è per Biamonti ciò che è la vigna per Pavese. Un assoluto. “Che ne sarà un giorno dei miei ulivi con la loro purezza francescana? Dei loro licheni, delle loro muffe? Lavorano notte e giorno, sotto il sole e sotto le stelle per aggiogare la terra al cielo”.
In questo paesaggio “protagonista”, tra ulivi, mimose, vigne, lentischi, si intrecciano armonicamente i dialoghi, le vite dei personaggi, emerge il “male di vivere” di Montale, il “tenter de vivre” di Valéry, il “sentirsi cadere la vita addosso” di Camus.
E tra questi grandi sta anche Biamonti che ci invita a guardare il paesaggio della nostra Liguria con occhi diversi.