Riflessioni

Louise Glück, Nobel per la Letteratura 2020

novembre 2020

di Danila Boggiano

Chissà in quanti, placato il clamore suscitato dal conferimento del Nobel,  più di un mese fa ormai, ricorderanno il nome di Louise Glück e avranno ancora il desiderio di riservarle la loro attenzione.
Oggi più che mai tutto si consuma velocemente, un fatto ne inghiotte un altro, e il velo pesante della pandemia che ci avvolge, spinge al margine tutto il resto, sospende i nostri progetti, le decisioni, persino i giudizi.
E non è solo per la comune preoccupazione, per l'aria malsana che in ogni istante siamo costretti a respirare, ma perché questa contingenza -- e speriamo che davvero lo sia -- sembra diventare l'alibi per la nostra antica distrazione nei confronti delle cose che richiedono silenzio e luce e lentezza, attenzione, insomma.
E la poesia tutto questo richiede.
Così ecco il perché della mia domanda iniziale.
D'altra parte pare che in pochi, al momento del conferimento del Nobel, conoscessero i suoi testi, anche tra gli addetti ai lavori e che in tanti, mutate le cose da mutare, abbiano evocato la domanda di manzoniana memoria.
Eppure la Glück, nata  nel 1943 a New York in una  famiglia di immigrati ebrei ungheresi, ha pubblicato in America dodici libri di poesie, ha vinto  i premi più prestigiosi, insegna Poesia a Yale ed è stata “poeta laureato USA” nel 2003.
E proprio in quell'anno viene pubblicata per la prima volta in Italia dalla  piccola casa editrice Giano, che oggi non esiste più, con la raccolta “L'Iris selvatico” nella traduzione di Massimo Bacigalupo, oggi professore emerito di letteratura angloamericana presso l'Università di Genova. E sempre  Massimo Bacigalupo ha tradotto nel 2019 “Averno” per la libreria-casa editrice Dante & Descartes di Napoli (in collaborazione con Editorial Parténope di Alicante), assecondando ragioni per certi aspetti banali, perché Averno è anche un piccolo lago vicino a Napoli e il programma editoriale della casa ha come finalità  prevalente la pubblicazione di testi con attinenza al territorio.
Non soltanto il Male accade banalmente.
Certamente per noi Averno è ben altro, e anche per la Glück, ma mi pare che la storia editoriale di questo libro sia emblematica di come in fondo, al di là delle  spesso insensate complicazioni che riguardano la realtà, ci sia un'intenzione semplice nelle cose e che l'imprevedibilità dei loro fini sia anche segno di limpida fantasia e non sempre di inquietante oscurità.
Ma tornando alla Glück, tralasciando la motivazione del Nobel e il Nobel stesso che sono soltanto accidenti nel percorso amoroso che lega il lettore a un poeta, questo sì sostanza, credo di poter dire, dopo lunga frequentazione, che questo attrae in lei, l'eleganza del pensiero e del dire. Nulla di sfacciatamente esuberante in lei, nessun intento di sedurre, nessun artificioso orpello, eppure efficace nella sua misura, corretta nei cenni dolorosi che la riguardano e che ci svela. Come se quel titolo, “Averno”, immediatamente evocatore di buio e di morte e di violenza, voglia addolcire la drammaticità che pur rappresenta e non permettere lo smarrimento, nostro, e di lei che tutto l'ha conosciuto.
Ma chi non conosce l'Averno?
Eleganza, dicevo, scelta preziosa di parole, e del ritmo che le lega, gioco di contrappunti come in una sinfonia.
Così “L'iris selvatico”, dialogo tra i fiori e Dio, dove, nonostante il tema coraggioso e alto, mai viene meno la misura umana, la tenera inadeguatezza che tutti gli attori vengono chiamati a rappresentare sulla pagina, e soprattutto quella di Dio, il più spaesato sulla scena della creazione che in qualche modo sembra averlo tradito. O lui gli uomini-fiori, o l'uomo giardiniere il suo giardino? Chi vittima e chi carnefice?
La stessa lucidità spietata che la Glück applica a tutto ciò che in Averno parla,  ora in modo sommesso, ora proclamando le sue ragioni, Ade e Proserpina e la madre e l'uomo e le stagioni e le cose stesse, come a suggerirci che la realtà è spietata, e per questo esigente di pietà, e con-fusa, e per questo esigente di “eleganza”.